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Channel: Arse's life
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Time after time

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L’anno scorso – sono due anni che non scrivo nulla su questo blog, me ne sono accorto questa sera – ero in vacanza in Irlanda. Tralascio il resoconto di viaggio, l’entusiasmo via via crescente per quei posti, i paesaggi, le pecore, le mucche, la gente, la birra, la musica, i colori. Tralascio di ringraziare Ildegardo che mi ci ha trascinato, vincendo la mia opposizione e regalandomi un vacanza che ancora adesso – a distanza di quindici mesi- mi fa stringere il cuore di malinconia e gioia a ogni pensiero.
Ogni sera, appena prima di spegnere la luce e addormentarsi, ero solito pubblicare su Facebook qualche foto della giornata appena trascorsa: uno scorcio di oceano, uno scoglio, degli animali selvatici, qualche rudere. Niente di eccezionale: sono pur sempre un pessimo fotografo e una persona comune.
Visitando Belfast, però, Ildegardo mi fotografò mentre fingevo di tenere un discorso nel Parlamento della Città. Era una foto divertente, protendevo un dito come fossi un conferenziere nel pieno della sua attività, fingevo di leggere da un foglio.
Mia zia, tipica donna della profonda provincia lombarda, di quelle terre che hanno visto crescere l’onda leghista, si complimentò con me perché avevo raggiunto un grande traguardo nella vita.
Fu come una bottiglia di spumante che si apre: i commenti successivi furono tutti di congratulazioni per un traguardo che, a ben guardare, nessuno sapeva bene quale fosse, ma del quale molti si sentivano in dovere di congratularsi, forse condividendone la gioia.

Non che avessi dei dubbi, ma è stato allora che ho iniziato a dubitare delle persone che mi circondano ma soprattutto a chiedermi quanto Facebook avesse cambiato le nostre vite, di che strumento pericoloso potesse essere.
Una foto, senza l’intermediazione di chi la interpreta e la commenta, può essere utilizzata per dire tutto e il suo contrario; può veicolare messaggi di odio, può essere modificata per suscitare indignazione, per additare un avversario politico, per creare allarmismi e tutto ciò a cui la propaganda politica degli ultimi anni ci ha abituato.

Passano gli anni ma scopriamo di avere sempre più bisogno di persone che sappiano guidarci nell’interpretazione della realtà, ma la cosa più meschina è che chi dovrebbe farlo spesso ha abdicato in favore di vantaggi economici e personali, anche basati semplicemente sulla propria vanità. Non è vero che i giornali e i giornalisti sono strumenti superati e per amanti delle chincaglierie: forse però i giornalisti sono stati colti dalla stessa pigrizia che ha colto noi tutti negli anni. Si aspetta un tweet, un post su Facebook, una diretta Instagram per avere un pezzo già scritto, senza porsi il problema di verificare le fonti, controllare la veridicità di quel che è detto, scritto o recitato a soggetto. Viene meno il lavoro di interpretazione, quasi fosse esso stesso una manipolazione del Vero, quando invece è l’essenza stessa del giornalismo.
Così facendo viene meno il ruolo di controllo della stampa e chiunque si sente pronto a interpretare la realtà, usando gli strumenti offerti dalla rete, facilmente sfruttati e modificati da chi vuole, con essi, orientare a proprio favore l’opinione pubblica.

Ho visto in questo anno e mezzo video di ogni tipo, trasferitimi anche da zie e zii settantenni che, scoperte le gioie di internet, di Whatsapp, di Telegram, mi hanno inondato di pensionate che volevano spiegare manovre economiche, post indignati sui parenti dell’onorevole Boldrini che lavoravano per cifre astronomiche in posizioni di prestigio, messaggi contro gli extracomunitari rei di venire a distruggere la nostra italianità, privandoci materialmente della “roba” (ci ritroviamo in un attimo verghiani, ributtati nell’Ottocento più drammaticamente povero e analfabeta) ma anche della nostra cultura, di cui improvvisamente ci ergiamo a paladini, salvo poi ignorarne i fondamenti.

Ho scoperto in questo lungo periodo di avere nutrito con la mia pigrizia quell’espressione da indignato in presidio permanente che accomuna gli utenti dei social network.
Lo ammetto: è facile retwittare 280 caratteri carichi di indignazione nei confronti dei ministri, dei politici di questo Governo di improvvisati apprendisti stregoni, di questi bugiardi seriali. È facile esprimere la propria rabbia per questo flusso di semplicioneria che ci pervade e con la quale dobbiamo fare i conti.
Non costa nulla la condivisione di un contenuto che ci fa sentire superiori e mette a tacere la nostra coscienza.

La pigrizia andava a braccetto con la rabbia e la rabbia però si trasformava in rassegnazione.
Una rassegnazione che è più banalmente l’espressione del tempo che passa, dei quarant’anni che ormai sono stati superati, delle recriminazioni che sempre più spesso uno si trova a fare pensando che alla mia età, Tizio, Caio, Sempronio avevano già pubblicato mille libri, scritto canzoni di successo, scoperto una cura strabiliante, dato il nome a un teorema e via di questo passo.

Appartengo a quella schiera piuttosto corposa di mediocri. Mediocre non nell’accezione di scadente, ma in quella aulica e meravigliosa di aurea mediocritas.
In un mondo in cui il dramma sociale dei giovani è quello di apparire, di essere desiderati, apprezzati, valutati con un cuoricino o un like, indosso con fierezza il mio essere un anonimo che cammina in mezzo a migliaia di altri anonimi.
Una fierezza che però non dimentica il tempo per l’indignazione e il tempo per la leggerezza. Una indignazione che non deve sfociare in spocchia e una leggerezza che non deve diventare indifferenza.

Mi sono cancellato da Facebook, per non arrabbiarmi alla vista delle dirette di certi nostri politici, più adatti a b-movie che alle aule parlamentari, per non dover ogni giorno perdere fiducia e stima in ‘amici’ che si dimostrano via via ottusi o razzisti o omofobi, per non avallare l’idea che quello che un tempo era la trasposizione di un annuario studentesco nel web, diventi l’unico strumento usato dai giovani per informarsi.
Uso Twitter come un passatempo, ma poi mi accorgo che non riesco a comprimere tutto in pochi caratteri: la comunicazione fatta per slogan non fa per me. Ho bisogno di tempo per riflettere, non ho le battute fulminanti dei bravi social media manager che con un tweet scrivono e riscrivono la politica di uno Stato.
Ci sono mille persone più originali di me, più brave di me, più abili nell’uso della lingua italiana. Penso anche che questi due lunghi anni di silenzio mi abbiano fatto disimparare a scrivere, ma tornare sul blog è un passo per vincere la pigrizia mentale e fisica, ma soprattutto quella civile che colpisce spesso gli italiani con una discreta cultura e la borghesia illuminata. Si pensa di essere immuni a ogni cambiamento negativo; si accoglie con alzate di spalle, a volte con ironia beffarda, ogni limitazione della propria libertà, convinti che un domani tutto possa tornare come nel passato, sottovalutando il virus dell’ignoranza e della tracotanza che viene instillato nel tessuto sociale e nel discorso politico fino a snaturarlo, renderlo evanescente nel suo essere divenuto becero.
Si guardano gli avversari politici come fossero barbari, ma a volte li si considera anche un elemento di rottura positivo, capace di rinnovare quell’assetto istituzionale che ad alcuni pare asfittico.
Ciononostante non ci si muove: si osserva, si guarda con diffidenza, ma non si vince l’inerzia.

Penso invece che sia il caso di riprendere. Poco per volta, piano piano, perché nessuno possa dire un giorno: “Ma tu, Arsenio, dov’eri? Che cosa hai fatto?”
Si fa quel che sappiamo fare o quel che abbiamo fatto in passato.
Si scrive, a volte per ricordarsi che esistiamo, a volte per affermare, a volte per non dire. Qualche volta per aiutare. Se stessi e gli altri.
Per le rivoluzioni c’è tempo.

 


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